Il gelato ha grandi doti nutritive ed energetiche e grazie alla sua facile digeribilità è particolarmente adatto nell’alimentazione dei bambini, degli sportivi e degli anziani

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DOSSIER NUTRIZIONE&GELATO

Il gelato confezionato sui social media tra falsi miti e verità scientifiche

di Martina Donegani
Biologa nutrizionista, dottoressa in Alimentazione e Nutrizione Umana
Yari Rossi
Biologo nutrizionista, dottore in Scienze della Nutrizione Umana

Oggi le fake news, le cosiddette “bufale”, dilagano a una velocità difficile da controllare e coinvolgono ogni settore della nostra vita, senza risparmiare l’alimentazione, che anzi risulta terreno particolarmente fertile per la loro diffusione, data la particolarità del nostro rapporto con il cibo. L’avvento di Internet e la sempre crescente popolarità dei social media ha contribuito enormemente alla proliferazione di queste notizie false, con la conseguenza che vengono influenzate le scelte di acquisto e di consumo delle persone, in termini non sempre ottimali per la salute. L’industria del gelato non è risultata certo immune a questo fenomeno, motivo per cui è necessario fare chiarezza sulle tante “bufale” che circolano sul gelato industriale.

LE FAKE NEWS: UN MALE DA CONTRASTARE

La conseguenza del circolare incontrollato di notizie false crea instabilità nella mente delle persone che non sanno più di chi fidarsi e non riescono a identificare e riconoscere quelli che dovrebbero essere i veri punti di riferimento per quanto riguarda la corretta informazione in campo alimentare. D’altronde, le fake news in genere nascono proprio con lo scopo di destabilizzare il consumatore e di veicolare precisi messaggi, a prescindere dalla loro veridicità, con lo scopo di condizionare i suoi comportamenti. Per risultare più convincenti, i diffusori delle “bufale” si avvalgono di una comunicazione gridata, dai contenuti sorprendenti, basata su messaggi semplici da comprendere e proposta con linguaggio diretto ma molto approssimativo, con lo scopo principale di catturare l’attenzione, convincere e spingere chi legge le “notizie” a diffonderle a sua volta, rendendole così, come si usa dire, “virali”.
Come detto, l’alimentazione è uno dei temi intorno al quale fiorisce il maggior numero di fake news: notizie infondate create ad arte e presentate come verità assolute, mode promosse senza il sostegno di alcuna evidenza scientifica, la glorificazione di alcuni alimenti come panacea per ogni male e all’opposto l’improvvisa demonizzazione di altri, magari appartenenti alla nostra miglior tradizione di consumo… il tutto in un contesto comunicativo dove ognuno può liberamente professarsi “esperto”, vantare una propria riconosciuta (da chi?) attendibilità ed esprimere, sul medesimo argomento, pareri diversi e spesso opposti a quelli di altri “esperti”. Inevitabile che sempre più persone vivano con ansia questa dimensione e finiscano per cadere vittima di una cultura ingiustificatamente allarmistica, tale da rendere innaturale lo stesso rapporto con il cibo. Oggi gli alimenti, anziché come fonte di sano piacere, sono vissuti dai più come un potenziale nemico, da guardare con diffidenza per i danni che può arrecarci, soprattutto se è di provenienza industriale. Ed è questo stesso rapporto con il cibo guidato da incertezza e ansia a determinare scelte di acquisto spesso tutt’altro che ottimali per la salute fisica e mentale delle persone.

I social media: un contesto favorevole
Secondo una recente indagine condotta nell’ambito del progetto CRAFT dal Centro di ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Cremona “Engage Minds Hub”, che è stata presentata a Gennaio 2020 in occasione del convegno “Food engagement: comprendere i comportamenti di consumo alimentare nell’era della partecipazione e delle fake news” nella sede cremonese della Cattolica, il 58% degli Italiani (quindi più della metà) dichiara di aver creduto almeno qualche volta nell’ultimo anno a una notizia relativa al mondo agro-alimentare che poi si è rivelata falsa, e di questi ben il 37% ha anche condiviso la notizia falsa sui social, contribuendo alla diffusione delle “bufale alimentari”. Dalla ricerca è emerso anche che le fake news coinvolgono ogni classe sociale e sono proprio i consumatori più attenti alla salute a caderne preda più facilmente. Per comprendere bene come sia possibile che le fake news attecchiscano e si diffondano così tanto da condizionare anche le scelte alimentari è però importante riflettere su come siano cambiati nel profondo e rapidamente i contesti e le modalità della comunicazione in questi ultimi anni.
In poco tempo i media tradizionali – la televisione, la radio, la stampa – hanno smesso di dominare l’informazione lasciando via via sempre più spazio al contesto del WEB e dei social media. Questo ha significato che, mentre prima la comunicazione era intermediata e sostanzialmente “verticale” con poche persone, i veri esperti di settore, che anche tramite i giornalisti parlavano al grande pubblico, diffondendo notizie e conoscenze condivise dalla comunità scientifica internazionale (o comunque verificabili facilmente proprio con riferimento a questa comunità), ora si è passati a un tipo di comunicazione non intermediata e “orizzontale”, in cui tutti possono autodichiararsi esperti, creare falsi circuiti di legittimazione scientifica delle loro idee e condividere contenuti online. Contenuti che grazie alla diffusività del mezzo, diventano subito fruibili da un vastissimo numero di persone che a loro volta possono crearne e condividerne di nuovi. Di fatto, oggi sul WEB e sui social media si possano trovare continuamente sia verità sia false notizie, con un’enorme difficoltà per l’utente medio nel distinguere le une dalle altre. Tutto ciò mette a dura prova i meccanismi di pensiero che normalmente si applicano nella vita quotidiana, per cui è naturale porsi delle domande, discutere con i propri interlocutori, e soprattutto usare il buon senso. Nel mondo dei social, applicare questi semplici meccanismi non è scontato perché le notizie che arrivano in ogni momento sono tantissime, e sono studiate per indurre a essere prese per vere senza alcuna verifica delle fonti e dei fatti.

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IL “PREGIUDIZIO DI CONFERMA”

Sono diversi gli elementi che vengono considerati nella “progettazione” (davvero è questo il termine giusto da utilizzare) di una fake news. Innanzitutto deve inserirsi in un contesto che vede già i destinatari bisognosi di risposte immediate ed efficaci ai dubbi che li assillano, e le fake news hanno in questo senso alcune caratteristiche comuni e irrinunciabili: veicolano messaggi semplici, rapidi, definitivi e rassicuranti. Sono pensate per corrispondere esattamente a ciò che il pubblico vorrebbe sentirsi dire ed è questo un dato che sovverte radicalmente la legge fondamentale della comunicazione: non è più la realtà fattuale a creare la notizia, ma è la notizia che spinge poi a costruire “realtà” anche solo virtuali e fantasiose che la sorreggono e le danno credibilità. Alla base di questo processo comunicativo c’è la diffusione, amplificata dai mezzi di oggi, di quello che è conosciuto come il confirmation BIAS (pregiudizio di conferma) e che da sempre caratterizza il comportamento e il pensiero dell’uomo.
In sostanza, non è altro che l’impulso, esercitato naturalmente da tutti, che ci porta a selezionare e interpretare le informazioni in una maniera coerente con il nostro sistema di valori e di convinzioni, quel sistema che stiamo sempre restii a mettere in discussione perché corrisponde alla visione del mondo che ci mette maggiormente a nostro agio.

Tradotto in pratica, il confirmation BIAS è il fenomeno per cui utilizziamo i motori di ricerca sul Web non tanto per trovare verità scientificamente dimostrate, ma piuttosto la conferma alle teorie che già nella nostra mente ci danno conforto e vogliamo credere vere.

Così, se per esempio pensiamo che la terra sia piatta, cercando su Internet non ci soffermeremo neppure a guardare le migliaia di ricerche accreditate che spiegano che è risaputo che non è così, ma saremo soddisfatti nel momento in cui ne troveremo almeno una che dice che il contrario: esattamente quello che vogliamo sentirci dire. Non a caso, la comunità dei “terrapiattisti” vanta oggi un impressionante numero di membri…

LA PERCEZIONE DEI PRODOTTI ARTIGIANALI E INDUSTRIALI SUI SOCIAL

n questo contesto, anche il gelato non è certo risultato immune dall’essere protagonista di notizie non veritiere e pregiudizi.
Il primo riguarda il fatto che il gelato industriale sia giudicato a priori troppo artefatto proprio perché industriale, con la diffusa opinione che questo comporti un peggioramento delle sue caratteristiche nutrizionali e che quindi il processo tecnologico impatti negativamente sulla salute, rendendolo meno sano di quello artigianale.

ARTIGIANALE O INDUSTRIALE?

Il gelato può sembrare una miscela davvero molto semplice: basta unire latte, zucchero e uova et voilà, il gelato è pronto! La realtà però, è parecchio diversa…
Il gelato è una miscela complessa, composta da diversi elementi che tenendosi legati tra loro e raffreddati mentre vengono agitati incorporano aria, il cristallo di ghiaccio diventa sempre più piccolo e si viene a formare questa composizione cremosa.

Una volta si utilizzava prettamente l’uovo per addensare la miscela e creare un’emulsione, ma nel corso degli anni è stato sostituito con delle farine alternative in grado di trattenere l’acqua e creare appunto un legame colloso, gli idrocolloidi. Rispetto all’uovo questi addensanti/colloidi non hanno sapore, non sono allergeni e svolgono il loro lavoro utilizzandone piccole quantità.

I più diffusi sono la farina di semi di carrube (E410), farina di semi di guar (E412), farina di semi di tara/gomma di tara (E417). Come si può notare sono stati inseriti dei numeri, le “E”; ma ciò non deve suscitare preoccupazione, per questo non si intende nulla di chimico o nocivo, che possa fare del male (almeno per questi tre), ma sono dei numeri internazionali per l’identificazione di determinate materie prime/sostanze. Dato che in altri paesi il prodotto può avere una modifica di nome, con il codice “E410” si ha chiarezza sul prodotto a cui si fa riferimento. Quindi, quando leggete le etichette, se trovate queste diciture, non spaventatevi, basta cercare online la sigla e saprete di cosa si tratta.
Che sia fatto in una azienda o dal gelataio, quello che conta sono gli ingredienti che sono reperibili sulle confezioni e sugli incarti nel caso dei gelati confezionati, mentre in gelateria è obbligatorio che sia a disposizione il libro degli ingredienti.

LA FAKE NEWS PIÙ DIFFUSA: IL GELATO CONFEZIONATO È PIENO DI CONSERVANTI

La fake news più diffusa riguarda l’idea che i gelati confezionati siano pieni di conservanti. Ebbene, la verità è disarmante nella sua semplicità: non è vero che vengano aggiunti conservanti ai gelati per il semplice motivo che non servono. Basta ragionare: il freddo è di per sé il miglior conservante e proprio per questo la catena del freddo garantisce da sola la perfetta conservazione del gelato nel tempo. A fronte di questa semplice evidenza, colpisce come la maggior parte delle persone che popola i social media sia convinta del contrario ed è anche disposta a perorare con convinzione la sua idea contribuendo a diffonderla e ad alimentare il meccanismo delle fake news. Ma allo stupore nel constatare la diffusione della fake news sui conservanti, si affianca anche l’evidenza di come sia radicata la sfiducia che emerge in generale, rispetto agli sforzi dell’industria nella ricerca di soluzioni volte a garantire la massima qualità e sicurezza dei prodotti. Al di là del fatto che non si utilizzino nel gelato perché inutili, i conservanti sono comunque additivi preziosi per moltissimi altri prodotti e la loro funzione è proprio quella di allungarne la vita, limitando gli sprechi e mantenendo sempre la più alta sicurezza igienica. Nei gelati confezionati si impiegano come additivi altre sostanze, non con lo scopo di conservare meglio i prodotti, ma con il fine di garantire la loro stabilità nel tempo, la migliore qualità organolettica e anche di mantenere il massimo del valore nutritivo. Parliamo di addensanti, emulsionanti e stabilizzanti quali, per esempio, lecitine, alginati, carragenina, farina di semi di carrube, gomma di guar… per la maggior parte sostanze di origine naturale o comunque ritrovabili anche in natura (alcune si usano normalmente anche in cucina), autorizzate dalla normativa vigente perché assolutamente sicure e impiegate nella quantità minima necessaria per ottenere l’effetto richiesto.

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L’ALTERATA PERCEZIONE DELLA SICUREZZA IGIENICA

Un altro dato sul quale riflettere è che, purtroppo, nel pensiero comune è completamente ribaltata quella che è una verità indiscutibile, non solo per il gelato, ma in generale per tutti gli alimenti industriali: nonostante la prima preoccupazione di ogni industria sia quella di garantire la massima sicurezza igienica dei suoi prodotti (attraverso standard rigidissimi e i più avanzati sistemi di controllo), la gran parte dei consumatori percepisce come intrinsecamente più sicuri quelli artigianali, dove il rispetto dell’igiene è lasciato allo scrupolo e alla preparazione dell’artigiano che li prepara. Nel caso del gelato questo controsenso assume un profilo più grave perché stiamo parlando di un prodotto comunque delicato, realizzato in genere anche con ingredienti facilmente deperibili che potrebbero costituire un buon terreno di crescita per germi nocivi (pensiamo solo alla salmonella e allo stafilococco). Consapevoli di quanto sia delicato il gelato, le aziende industriali attuano in fase di produzione tutti gli accorgimenti relativi all’igiene dei prodotti, del personale, dei materiali, dei macchinari e degli ambienti, per evitare ogni possibile rischio, e far sì che, una volta superati i controlli finali e uscito dall’azienda produttrice, il gelato risulti facilmente conservabile nelle migliori condizioni, a patto solo di rispettare la catena del freddo nelle fasi di trasporto e sul punto vendita (basta solo verificare il funzionamento dei termometri dei frigoriferi e che non vi sia troppa brina). Anche rispetto alla qualità organolettica e nutritiva, è da ricordare che la maggior parte delle grandi aziende segue il “Codice di autodisciplina dei prodotti della gelateria industriale” messo a punto dall´Istituto del Gelato Italiano (IGI), con tutte le specifiche da rispettare per garantire le migliori caratteristiche dei prodotti.

IL GELATO CONFEZIONATO PUÒ ESSERE CONSUMATO IN GRAVIDANZA?

La gestazione vuol dire per moltissime donne il dover convivere con voglie irresistibili, tra le quali spicca sicuramente quella di gelato. Ma si tratta di un alimento sicuro? In gravidanza è fortemente consigliato il consumo di alimenti previa cottura al fine di eliminare qualsiasi contaminazione batterica.
In passato il consumo di gelato poteva avere diversi rischi.
La maggior parte di questi comportavano infezioni. Il primo rischio è dovuto ad un batterio, la Listeria, che si trova nel latte crudo o non pastorizzato e nella panna non pastorizzata. Il rischio è quello di infettare il bambino tramite il consumo di gelato a base di latte crudo o di panna/latte non pastorizzata/o.
Il secondo rischio di infezione è la Salmonella, un batterio presente nelle uova. Il problema si presenta se il gelato è fatto con uova crude.
Nella preparazione del gelato confezionato si utilizzano uova pastorizzate ciò significa che le uova hanno subito un trattamento termico utile ad eliminare l’eventuale carica batterica presente.
Nelle fasi di preparazione del gelato confezionato, dopo la fase di omogeneizzazione degli ingredienti, la miscela è sottoposta a pastorizzazione (79-85°C per circa 25 sec), questo processo contribuisce ad abbattere ulteriormente i batteri patogeni eventualmente presenti.
Dopo la pastorizzazione, il gelato confezionato viene conservato a basse temperature solitamente -18°C. Le rigide regole disciplinari fanno sì che la catena del freddo sia mantenuta fino al raggiungimento del punto vendita.
I gelati confezionati pertanto in gravidanza sono da ritenersi assolutamente sicuri.

IL MITO DEGLI ALIMENTI ULTRAPROCESSATI

Sostenere che il gelato confezionato sia un cibo ultraprocessato non ha nessuna valenza, né negativa, né positiva dal punto di vista salutistico e basta guardare il processo di lavorazione per rendersi conto di come questo sia composto da semplici operazioni di miscelazione e graduale raffreddamento, fino al congelamento degli ingredienti opportunamente selezionati: trasformare gli alimenti non porta automaticamente a prodotti dannosi per la salute.
Dopo il dosaggio degli ingredienti: latte (fresco e in polvere), gli zuccheri (saccarosio, sciroppo di glucosio in quantità variabile a seconda della ricetta), grassi (panna, burro, olio di cocco) e gli additivi farina di semi di carrube e alginato di sodio, comincia il processo di miscelazione, a seguito del quale i componenti solidi e liquidi risultano miscelati nel latte o nell’acqua. Per ridurre le dimensioni dei globuli di grasso, la miscela passa all’omogenizzatore, che rende tutto più cremoso. La fase più importante per la sicurezza alimentare è la pastorizzazione, «che conferisce alla miscela stabilità biologica ed enzimatica ed elimina l’eventuale flora microbica pericolosa». A questo punto la miscela passa alla maturazione per un minimo di due ore ed un massimo di tre giorni e in seguito alla mantecazione, che consiste in una prima fase di congelamento durante la quale viene inglobata aria per dare volume e sofficità al gelato per poi passare alla fase di indurimento in un tunnel dove la temperatura oscilla da -23°/-25°C.
Segue il confezionamento e la conservazione in cella ad almeno a -18°C.
La fase successiva – la distribuzione – prevede il mantenimento della catena del freddo a -18°C.

E CON I GRASSI SATURI… COME LA METTIAMO?

I gelati confezionati utilizzano, oltre alla panna che rappresenta comunque il grasso di elezione, altri oli vegetali, come il cocco considerati grassi di minor valore commerciale e di minor pregio. La scelta dell’olio di cocco è dovuta al fatto che si scioglie più rapidamente in bocca senza lasciare la sensazione di “untuosità”, aiuta a trattenere e a stabilizzare le bollicine di aria all’interno della struttura del gelato, aumenta la resistenza allo scioglimento a temperatura ambiente, presenta un’ampia versatilità grazie alla sua neutralità al gusto e, inoltre, irrancidisce con difficoltà.
Quindi, rispetto ai grassi di origine animale come panna e burro, anch’essi utilizzati nella realizzazione del gelato industriale, l’olio di cocco ha caratteristiche molto simili. Permette tuttavia di ottenere una miglior definizione della forma del gelato consentendo un’estrusione perfetta. Un ulteriore vantaggio dell’olio di cocco rispetto alla panna e al burro è anche la sua neutralità di gusto e di conseguenza la sua versatilità nell’industria del gelato.
I grassi di cocco rappresentano l’80% dell’assunzione di grassi tra i popoli del sud est asiatico (Sri Lanka). Circa il 92% di questi grassi sono grassi saturi. Ciò ha portato alla convinzione che i grassi di cocco “fanno male alla salute”, in particolare in relazione alla cardiopatia ischemica, e all’aumento del colesterolo (Amarasiri WA et al., 2006).
Pur essendo estremamente ampia la variabilità di ricette, ai fini di un calcolo orientativo potremmo ipotizzare un contenuto medio di olio di cocco nei gelati industriali pari al 5%. Quindi il contributo dell’olio di cocco nei gelati all’assunzione di grassi saturi è davvero irrisorio.

Il profilo nutrizionale dell’olio di cocco, considerando il contenuto calorico e lipidico, è del tutto paragonabile e analogo a quello degli altri grassi vegetali. Una caratteristica peculiare dell’olio di cocco è la sua composizione in acidi grassi: contiene circa l’87% di grassi saturi, il che lo rende particolarmente vantaggioso dal punto di vista tecnologico per quanto sopra riportato.

Tuttavia, la maggior parte dei grassi saturi nella noce di cocco sono acidi grassi a catena media, tra cui il più abbondante, pari a circa il 50% degli acidi grassi saturi, è rappresentato dall’acido laurico. Si tratta di acidi grassi con un numero di atomi di carbonio inferiore o uguale a 12, i cosiddetti MCT (medium chain tryglicerides), le cui proprietà e il loro metabolismo sono diversi da quelli di origine animale.

Questi MCT seguono una via metabolica diversa rispetto a quella degli altri acidi grassi saturi, non subiscono processi di degradazione e riesterificazione, raggiungendo direttamente il fegato,
attraverso la via portale, dove vengono metabolizzati rapidamente. Grazie a questo processo metabolico, svolgono una funzione prettamente energetica ed è per questo motivo che trovano impiego nella preparazione degli integratori utilizzati nella nutrizione artificiale, ma anche negli integratori destinati agli sportivi, come fonte energetica integrativa.
L’acido laurico, infine, è uno tra gli acidi grassi saturi presenti anche nella composizione del latte materno.

CONCLUSIONI

Paracelso, medico svizzero del XVI secolo, scriveva: “Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit” ossia «Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.» Tutti i cibi possono essere considerati “cibi salutari”, quando vengono consumati come componenti di una dieta equilibrata, ma alla stessa maniera qualunque cibo può diventare “non sano” quando ne mangiamo quantità così grandi da non lasciare più posto agli altri cibi necessari per un’equilibrata alimentazione”.
Chiunque sia minimamente aggiornato sul progresso delle tecnologie alimentari sa bene che i gelati confezionati contengono esattamente quanto testimoniato in etichetta e non comportano alcun problema igienico o salutistico. Il problema, semmai, nasce dal fatto che trattandosi di cibi gradevoli al gusto possono entrare nella dieta non come pezzo unico ma…in più esemplari!
La lotta all’obesità è un impegno che riguarda e preoccupa chiunque si occupi di sanità pubblica. L’OMS, il massimo tutore mondiale della salute, lo ha chiaramente ricordato ai Governi di tutti i Paesi, ma è con l’educazione ai consumi e non con la diffamazione di qualche alimento che si deve costruire una strategia comportamentale, fondata in primo luogo sulla revisione dello stile di vita e non solo sul numero delle calorie ingerite.